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Parole difficili per non informare

  • Immagine del redattore: Amadou
    Amadou
  • 18 mar
  • Tempo di lettura: 4 min

Ti hanno mai chiesto se ti occupi di food & beverage? Hai mai letto uno storytelling data-driven? Hai completato il tuo task EOD? Hai fissato il briefing per il meeting del networking? Perché chi lavora nel marketing o nella comunicazione parla così? E questo tipo di comunicazione serve davvero a qualcosa?



Junior Consultant in un'agenzia milanese, qualche giorno fa Ilaria Padovan ha scritto un articolo illuminante per «Il Post» sulla "lingua segreta dei consulenti" mettendo a nudo alcune dinamiche nocive del modo di comunicare di molte realtà: "avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali", tutti "scrivono parlano pensano nell’antilingua".


No, non è una questione di intraducibili termini stranieri

Sfatiamo un mito: l'uso eccessivo di termini inglesi nel linguaggio professionale non è sempre sinonimo di mancanza di equivalenti italiani: i termini nella nostra lingua ci sono, eccome. Perché invece di fare un recap della situazione, non possiamo ricapitolare, riassumere o aggiornare? Il briefing, il meeting, il networking, il task, le skill... quante parole possiamo dire in italiano?


Questa non è una questione di nostalgia per il passato. Si tratta di riflettere sull'efficacia della nostra comunicazione. L'abuso di anglicismi e acronimi crea barriere, non ponti. Invece di proiettare un'immagine di competenza, rischia di generare confusione e di escludere chi non è avvezzo a questo gergo.


Scegliere l'italiano, quando possibile, è un atto di chiarezza e inclusione. Significa mettere al primo posto il messaggio, non l'apparenza. Non è una questione di vecchio contro nuovo, ma di efficace contro inutile. Come vedremo tra poco grazie all'articolo di Padovan:


Comunicare in modo burocratico, pomposo e artificiale, ma anche tecnico o “cool” serve sempre a nascondere più che a informare, è un modo per esercitare potere e autorità, e mantenere gli esclusi a distanza e impedirgli di comprendere.


Screenshot di un articolo di giornale
Per leggere l'articolo di Ilaria Padovan apparso nel Post clicca sull'immagine

LFDA: la follia degli acronimi

Termini come leverage, synergy e disruption vengono utilizzati in contesti aziendali senza nemmeno rispettare il loro significato originale in inglese.  Non solo stiamo adottando un linguaggio artificiale e incomprensibile, ma lo stiamo anche stravolgendo, privandolo di qualsiasi coerenza. Questa distorsione linguistica, unita all'abuso di acronimi ci porta al limite del ridicolo. Qualche esempio:


EOD = End of the Day, termine della giornata lavorativa

LMK = Let Me Know, fammi sapere, aggiornami

IMO = In My Opinion, secondo me

EX = Experience, esperienza

OOO = Out Of Office, fuori ufficio

NLT = No Later Than, non più tardi di...

FYI = For Your Information, per tua informazione


Questa tendenza non è un segno di modernità o di competenza, ma piuttosto di una superficialità che mina la chiarezza e l'efficacia della comunicazione.

Dovremmo chiederci: stiamo davvero comunicando o stiamo solo creando un gergo elitario che esclude chi non ne fa parte?


Gene Wilder in "Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato"
Gene Wilder in "Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato", 1971

Aziendalese: l'antilingua che crea ruoli e poteri

Qui ad Amadou, l'antilingua aziendalese è bandita – assieme alle parole di plastica. Fedeli al motto "parla come mangi", seguiamo una dieta e una comunicazione sana ed etica: ci occupiamo di parole e immagini, il minimo che possiamo fare è averne cura. La nostra missione è restituire alla comunicazione la sua naturale bellezza e trasparenza, liberandola dai gerghi incomprensibili


Nel suo articolo, Padovan racconta di come aver imparato l'aziendalese le avesse dato "l’illusione di sentirmi potente, trasformando la mia lingua in un codice elitario costruito per definire chi appartiene al sistema e chi, invece, no". Perché una delle ragioni d'essere principali dell'aziendalese è tracciare un confine definito tra chi lo capisce e lo parla e chi no, per "marginalizzare chiunque non appartenga alla setta". Prosegue Padovan:


Il linguaggio aziendale diventa lo strumento principale per creare la distinzione tra sacro e profano, stabilendo una barriera con i clienti (e il resto del mondo)

due uomini d'affari scena di un film
Jonah Hill e Leonardo Di Caprio in una scena del film "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese (2013).

Alla fine, è solo una questione di soldi: i tuoi.

Svelando un gioco nauseante, Padovan arriva al cuore della faccenda senza troppi fronzoli:


usare termini che il cliente non comprende conferisce autorità a chi li padroneggia: "dobbiamo essere convincenti per giustificare il costo dei nostri servizi. (...) Ciò che diciamo non veicola informazioni, afferma il nostro ruolo".

Il lessico dei consulenti di comunicazione non è comunicazione, è l’esatto contrario. Alla luce di questi fatti, siamo ancora sicuri di volerlo usare?



In conclusione

L'aziendalese, l'uso improprio di acronimi e termini inglesi non proiettano un'immagine di professionalità: generano confusione, frustrazione e persino esclusione.


Ricordiamoci che il vero valore di un professionista risiede nella sua competenza, nella sua capacità di risolvere problemi e nella sua abilità di comunicare in modo chiaro e comprensibile a tutti. Non è necessario nascondersi dietro un linguaggio artificioso per dimostrare il proprio valore.


Scegliamo di comunicare in modo autentico con un linguaggio inclusivo. Costruiremo un mondo più collaborativo, produttivo e umano.



Se vuoi lavorare con qualcuno che parla come mangia, scrivi ad Amadou


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